I CTZ (Certificati del Tesoro a Zero Coupon) hanno fatto il loro esordio sul mercato finanziario italiano il 23 febbraio 1995. Si tratta di un titolo identico ai Bot ma con durata di 24 mesi, per questo definito anche “bottone”. I Ctz non prevedono cedole. Infatti, gli interessi sono percepiti dall’investitore tutti insieme alla scadenza e sono dati dalla differenza tra prezzo di rimborso (alla pari) e prezzo di sottoscrizione.
Risulta essere un titolo molto liquido. Viene quotato di diritto in Borsa già dal giorno successivo alla data di collocamento. Con la quotazione ufficiale, gli investitori possono controllare ogni giorno quanto vale sul mercato e, se lo ritengono opportuno, venderlo prima della scadenza ad un prezzo certo. In questo caso non ci sono rischi di perdita di capitale. Non distribuendo cedole, a parità di condizioni sul mercato, lo zero coupon aumenta progressivamente il valore fino ad avvicinarsi al valore di rimborso.
Per vendere il Ctz prima della scadenza ad un prezzo inferiore a quello di acquisto si dovrebbe quindi verificare un aumento dei tassi di mercato di entità notevole. Come tutti i titoli a tasso fisso, è consigliabile sottoscriverlo in previsione di un calo dei tassi e sconsigliabile logicamente nel caso opposto. Ai fini della tassazione, gli interessi e gli altri proventi dei Ctz, sono soggetti ad un’imposta sostitutiva del 12,5%. Ciò ovviamente comporta che al termine della vita del titolo l’importo rimborsato non sia pari al valore nominale ma inferiore (valore nominale al netto della tassazione).
Sono inoltre sottoposte alla stessa tassazione le plusvalenze realizzate con l’eventuale vendita dei Ctz. Attualmente il rendimento annuo dell’ultima emissione Ctz con scadenza 30 aprile 2012 è del 1,643% (1,438% netto).
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L’interruzione del rimborso del finanziamento (mutui e prestiti) comporta l’immediata inadempienza nei confronti dell’istituto finanziatore ed il rischio di spiacevoli conseguenze
– maggiorazione degli interessi dovuti con applicazione di una mora stabilita per legge;
– inserimento del proprio nominativo nella lista dei pagatori ritardatari e/o segnalazione agli enti di tutela del credito (Sic, vedere più sotto), i quali diffonderanno le informazioni a tutto il sistema bancario e finanziario. Il risultato sarà il peggioramento dell’affidabilità creditizia del cliente e una conseguente maggiore difficoltà nell’ottenere credito in futuro;
– con il mancato puntuale pagamento anche di una sola rata, l’istituto finanziatore è autorizzato a risolvere in modo unilaterale il contratto. Il cliente sarà tenuto al pagamento di tutte le spese bancarie e di protesto e di tutti gli oneri sostenuti dall’istituto per recuperare le somme dovute, oltre che di un’eventuale penale.
Con la messa in mora, al cliente viene comunque intimato di pagare prima che il ritardo di pagamento venga registrato. I regolamenti al riguardo stabiliscono:
– il primo ritardo non può essere visualizzato nelle banche dati prima che siano scadute almeno due rate mensili consecutive, o prima di 60 giorni dall’aggiornamento mensile. Nel caso di un’impresa o di un professionista, il ritardo non può essere visualizzato prima di 30 giorni dall’aggiornamento mensile;
– i ritardi successivi al primo sono visualizzati nel momento stesso in cui si verificano e ne rimane registrazione per 12 mesi a partire dal giorno dell’avvenuto pagamento;
– i ritardi superiori, poi sanati, restano registrati per 24 mesi a partire dal giorno dell’avvenuto pagamento;
– un ritardo non sanato non potrà comunque rimanere registrato per più di 36 mesi dalla data di scadenza contrattuale del finanziamento o dalla data in cui è stato necessario l’ultimo aggiornamento.
Abbiamo già detto che per valutare la richiesta di finanziamento, oltre che alle informazioni ottenute dal cliente stesso e a quelle ottenibili dai registri dei tribunali e dei catasti, le banche e le società finanziarie utilizzano i dati dei Sic (Sistemi di informazioni creditizie). Le banche dati dei Sic (una volta definite Centrali dei rischi) possono essere sia pubbliche che private e sono così elencate:
– Centrale dei rischi pubblica, gestita dalla Banca d’Italia, per finanziamenti di importo superiore a 75.000 euro;
– Centrale dei rischi pubblica, gestita dalla Società Interbancaria per l’Automazione (SIA), sotto la vigilanza della Banca d’Italia, per finanziamenti di importo inferiore a 75.000 euro e superiore a 30.000 euro;
– Centrali dei rischi private, per finanziamenti di importo inferiore a 30.000 euro.
I Sic sono grandi database che contengono tutte le informazioni su mutui, prestiti, finanziamenti, che vengono erogati dalle banche e dalle società finanziarie, inerenti la regolarità dei pagamenti delle rate, gli eventuali ritardi, l’estinzione del debito e quant’altro. Queste informazioni vengono elaborate e ritrasmesse alle banche per verificare la solvibilità dei clienti e i loro comportamenti del passato, oltre che il livello complessivo del loro indebitamento. E vengono periodicamente aggiornate. Il cliente ha diritto di accedere in qualunque momento ai Sic per consultare le informazioni che lo riguardano ed esercitare i diversi diritti riguardanti le rettifiche, gli aggiornamenti, le cancellazioni.
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BTP (Buoni del Tesoro Poliennali) sono titoli a medio-lungo termine e a tasso fisso. Hanno attualmente una durata di 3-5-10-15 e 30 anni. Gli interessi sono predeterminati e vengono corrisposti ogni sei mesi mediante lo stacco di cedole. I Btp sono ammessi d’ufficio, dal giorno successivo alla data di collocamento, alla quotazione ufficiale in Borsa, per cui sono titoli molto liquidi. L’investitore che vorrà vendere o acquistare un Btp sul mercato secondario, disporrà quindi da subito di un prezzo di riferimento certo. Però esistono delle controindicazioni, perchè in caso di vendita potrebbe realizzare un prezzo inferiore a quello pagato, e quindi subire delle perdite del capitale investito.
Infatti i Btp, essendo titoli a tasso fisso, sono molto sensibili alle oscillazioni dei tassi, e per questo sono considerati titoli molto speculativi. La loro sensibilità produce oscillazioni dei prezzi che possono essere anche rilevanti. Se i tassi di interesse sul mercato tendono a salire e quindi a superare il tasso fisso dei vecchi Btp presenti sul mercato, questi ultimi perderanno di valore, perchè, così facendo, faranno aumentare il rendimento offerto, adeguandolo a quello che il mercato richiede. Viceversa, quando sul mercato si verifica un calo dei tassi di interesse, i titoli a tasso fisso come i Btp, diventano titoli privilegiati, perchè conservano il loro tasso di interesse e nel contempo aumenta il loro prezzo – e di conseguenza il loro valore – e possono essere venduti sul mercato secondario ad un valore superiore al prezzo di collocamento. Le oscillazioni sono molto maggiori per i titoli a lunga scadenza, che sono pertanto più rischiosi e speculativi. Il rendimento si calcola dunque in base al tasso di interesse che è fissato dal Tesoro ed alla differenza fra prezzo di rimborso e prezzo di acquisto.
Il rendimento lordo delle ultime emissioni va dal 2,01% dei Btp a 3 anni al 5,08% dei Btp a 30 anni.
Dal 12 settembre 2003 gli investitori italiani hanno a disposizione un innovativo Btp indicizzato all’inflazione europea (BTPei). Si tratta di una variante dei classici Btp. Nati sulle lontanissime ceneri dei Ctr (Certificati a tasso reale), hanno una durata di 10-15 e 30 anni e garantiscono il rimborso del capitale nominale indicizzandolo alla crescita dei prezzi al consumo della zona euro. In pratica il capitale viene rivalutato ogni giorno e a scadenza l’ammontare rimborsato sarà superiore a 100 nel caso di inflazione in ascesa e uguale a 100 nel caso di deflazione.
La cedola è semestrale ed è calcolata sul capitale rivalutato. Ad esempio, se il capitale in emissione valeva 100 e l’inflazione al momento dello stacco della cedola è dell’1%, allora il capitale va rivalutato a 101. Di conseguenza la cedola che verrà pagata sarà per esempio, del 1,70% calcolata su 101 e non su 100.
I Btpei consentono di coprirsi dal rischio inflazione, però questa copertura è attualmente parziale. Infatti l’inflazione considerata è quella europea, che è inferiore a quella italiana. Gli investitori che punteranno su questi titoli devono pertanto tenere conto anche di questo.
Il rendimento lordo delle ultime emissioni va dal 2,72% dei Btpei a 10 anni al 2,78% dei Btpei a 30 anni.
Infine ricordiamo che, come tutti i titoli di Stato, i Btp sono soggetti ad una imposta sostitutiva del 12,5% calcolata sul valore delle cedole e sulla eventuale differenza tra prezzo di emissione e quello di rimborso (se è più elevato). Sono inoltre tassate con la stessa aliquota le plusvalenze realizzate sulla eventuale vendita dei titoli sul mercato secondario.
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La tendenza al ricorso al tasso variabile è conseguenza del livello estremamente contenuto dell’Euribor, che consente di abbassare la rata mensile. Inoltre, a detta di molti, per i prossimi 6 o 12 mesi i tassi a breve termine dovrebbero mantenersi sui minimi storici e, in seguito, risalire gradualmente (a meno di eventi clamorosi, come una crisi dell’euro originata dal problema del debito in alcuni Stati).
Le banche hanno messo a punto prodotti innovativi che proteggono il mutuatario da spiacevoli sorprese, come il mutuo con cap, il mutuo con opzione ed il mutuo a rata costante e durata variabile (quest’ultimo con le opportune riserve).
Il mutuo con opzione consente al mutuatario di passare dal tasso variabile al tasso fisso e viceversa. Di solito il passaggio è stabilito dal contratto a scadenze predefinite e risulta essere consentito per un certo numero di volte. Il mutuatario ha l’opzione di modificare il tasso e può fissarlo (se ritiene che quello che paga al momento resterà conveniente anche in futuro), o renderlo variabile (se ritiene che il tasso pagato al momento sia troppo elevato e che il futuro porterà ad un calo). E’ un tipo di mutuo molto interessante per la sua flessibilità.
Ma c’è anche chi addirittura ha ampliato, e di molto, le caratteristiche di questo tipo di mutuo, rendendolo ancora più flessibile. Lo ha fatto Unicredit con Mutuo Opzione Sicura, tramite il quale si può scegliere inizialmente tra tasso variabile e fisso. Se si sceglie il tasso variabile, questo lo si può trasformare in fisso in qualsiasi momento per 2 o 5 anni. Alla scadenza si può rinnovare per altri 2 o 5 anni a tasso fisso o passare al variabile.
Naturalmente occorrerà accendere anche un conto corrente a condizioni favorevoli o trasferire comodamente il conto corrente da un’altra banca a zero spese.
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Conoscere l’andamento del tasso di cambio delle principali valute mondiali rispetto all’euro è di fondamentale importanza per chi intenda investire una quota del proprio risparmio in azioni estere, in titoli a reddito fisso esteri, o in fondi comuni di investimento italiani specializzati sull’estero.
Il tasso di cambio si può definire come il prezzo di una valuta (o moneta) in termini di un’altra valuta, ovvero il valore equivalente di una unità di valuta rispetto ad un’altra. Una valuta può considerarsi infatti come un bene, soggetto a compravendita e quindi negoziabile. E come avviene per qualsiasi bene, il prezzo di una valuta subisce variazioni per effetto di cambiamenti che riguardano la domanda e l’offerta. Per il risparmiatore italiano è chiaramente l’euro la valuta di riferimento, ed esistono tanti tassi di cambio quante sono le valute negoziate sul mercato.
I tassi di cambio sono soggetti a variazioni giornaliere. Nel caso di un aumento del
prezzo in euro di una determinata valuta, si avrà un deprezzamento, o svalutazione, dell’euro nei confronti di quella valuta. Nel caso contrario di una diminuzione del prezzo in euro di una determinata valuta, si avrà un apprezzamento dell’euro nei confronti di quella valuta.
Il risparmiatore italiano che ha investito una quota del proprio patrimonio in titoli esteri, ad esempio giapponesi, avrà un guadagno in conto capitale nel caso di una svalutazione dell’euro nei confronti dello yen, e una perdita in conto capitale nel caso contrario di un apprezzamento dell’euro sullo yen.
Facciamo un altro un esempio per capire meglio. Se utilizziamo il cambio euro/dollaro, e il tasso di cambio nominale dell’euro rispetto al dollaro passasse da 0,85 a 1,00 (parità col dollaro) e poi a 1,15, avremmo che, inizialmente, per “comprare”, ad esempio, mille dollari, sarebbe necessario pagare 1.176,47 euro, mentre al raggiungimento della parità, per “acquistare” gli stessi mille dollari basterebbero mille euro e, quando infine il cambio euro/dollaro fosse pari ad 1,15, mille dollari “costerebbero” 869,57 euro.
In sintesi il rapporto tra le valute è determinato essenzialmente da quattro fattori, e precisamente:
la valuta nazionale si apprezza quando aumenta il tasso di interesse interno rispetto a quello estero;
la valuta nazionale si apprezza quando gli operatori si aspettano che in futuro essa debba farlo, trasferendo nel presente almeno una parte dell’effetto della previsione;
la valuta nazionale si apprezza quando il livello dei prezzi interni diminuisce rispetto a quello dei prezzi esteri, cioè quando guadagna potere d’acquisto nei confronti della valuta estera;
la valuta nazionale si apprezza quando il saldo della bilancia dei pagamenti del Paese è positivo.
Negli ultimi tempi si è però notata una sempre maggiore correlazione tra i movimenti dei mercati azionari e le oscillazioni delle valute, ignorando a volte il trend delle economie sottostanti. Per cui possiamo affermare che molti fattori finanziari pesano sempre di più sull’andamento dei tassi di cambio rispetto all’economia reale.
Le transazioni medie giornaliere sui mercati dei cambi ammontano a più di 2.000 miliardi di dollari. E l’interesse per il mercato delle valute è sempre crescente.
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